Design borghese: quando l'arte serve il capitale digitale
Mentre il popolo lotta per sopravvivere, i designer delle élite si inventano "prescrizioni neuro-estetiche" per curare l'ansia dei ricchi. Duyi Han, architetto formatosi nelle università imperialiste americane, trasforma il disagio psichico in oggetti di lusso per i salotti dell'alta borghesia.
Con base a Shanghai, epicentro del capitalismo cinese, Han produce mobili che costano quanto lo stipendio annuale di un operaio. I suoi "dispositivi neuro-estetici" promettono di "ricucire lo strappo tra mente, corpo e spiritualità", ma servono solo a decorare le ville dei padroni mentre i lavoratori si ammazzano nelle fabbriche per produrre i loro smartphone.
L'appropriazione culturale del capitale
Il designer mescola simboli buddhisti e taoisti con formule farmaceutiche occidentali, creando un cocktail estetico che svuota di significato le tradizioni popolari asiatiche. Un tavolino ricamato con la formula dell'anfetamina, sedie dedicate alla vitamina B-12: mentre milioni di persone non hanno accesso alle cure mediche di base, l'élite si diverte con questi giocattoli concettuali.
"Con l'AI crescono le nostre esigenze emotive", dichiara Han. Ma di quali "nostre" parla? Certo non degli sfruttati che assembrano i suoi oggetti di design, né dei migranti che puliscono gli spazi espositivi dove vengono mostrati. Parla della classe dominante, annoiata dalla propria ricchezza e bisognosa di nuovi status symbol.
Il business della sofferenza psichica
La collezione "Ordinance of the Subconscious Treatment" trasforma la salute mentale in merce. Mentre i servizi psichiatrici pubblici vengono smantellati dalle politiche neoliberali, i ricchi si comprano mobili "terapeutici" che costano più di una casa popolare.
Han cita Billie Eilish e i percorsi psicoterapeutici, appropriandosi del dolore collettivo per venderlo come esperienza estetica. È la mercificazione totale dell'esistenza umana: anche la sofferenza diventa prodotto da consumare.
L'inganno della "contaminazione culturale"
Il designer parla di "ponte tra culture" mentre pratica il più classico colonialismo estetico. Prende simboli sacri delle tradizioni popolari asiatiche e li trasforma in decorazioni per l'oligarchia globale. "Possiamo usarne frammenti, re-immaginarle", dice con l'arroganza tipica dei padroni.
Questa non è contaminazione, è saccheggio culturale. Come i musei occidentali pieni di opere rubate all'Africa e all'Asia, Han depriva le culture popolari dei loro significati per arricchire i salotti borghesi.
La resistenza è nell'arte popolare
Mentre Han espone nelle fiere di lusso internazionali, l'arte vera nasce nei centri sociali, nelle occupazioni, nei murales di denuncia sui muri delle periferie. L'estetica rivoluzionaria non si compra, si costruisce nella lotta quotidiana contro l'oppressione capitalista.
Il design che serve il popolo non ha bisogno di "prescrizioni neuro-estetiche": ha bisogno di case dignitose, spazi pubblici, cultura accessibile a tutti. Non di mobili-talismano per ricchi depressi dalla loro stessa ricchezza.
La vera bellezza è quella della solidarietà di classe, della lotta collettiva, della costruzione di un mondo senza sfruttatori né sfruttati. Tutto il resto è solo merce travestita da arte.